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Lo scimmione e Minerva

di Emanuele Lelli

28 Luglio 2023

Nel 1917, al culmine di un conflitto mondiale di cui si avverte chiaramente l’eco in molte pagine, Ettore Romagnoli, allora titolare della cattedra di Letteratura Greca all’Università di Padova, pubblicò un pamphlet in cui ristampava alcuni interventi di polemica e critica letteraria: Minerva e lo Scimmione.
Minerva, nella frizzante metafora di Romagnoli, incarnava il vero spirito dell’approccio alla cultura classica, materiato di passione e di gusto estetico, di contro al sempre più diffuso “filologismo” dell’accademia di allora, freddo, miope, privo di sensibilità, rappresentato appunto come uno Scimmione. Se di Minerva sarebbe stata campione la più tradizionale e verace scuola italiana, nello Scimmione si riconoscevano soprattutto gli studiosi “alemanni”, in primis addirittura Wilamowitz, e i loro epigoni italiani.
Romagnoli imputava al filologismo di scuola tedesca l’aver fatto assurgere un metodo, certamente indispensabile nel lavoro di edizione di testi e in altri ambiti, a fine unico dell’attività dello studioso del mondo antico; rimproverava alla maggior parte dei colleghi che si fregiavano del titolo di “filologi” uno scarso impegno nella diffusione della cultura classica, che a suo giudizio poteva essere perseguito soprattutto con traduzioni, saggi critici e messe in scena di drammi antichi; accusava i più influenti esponenti della corrente filologica italiana di pilotare i concorsi universitari per imporre studiosi che avevano realizzato eccellenti lavori filologici dedicati però – intenzionalmente – ad autori minori o persino sconosciuti, a discapito di altri studiosi ben più capaci, attivi, motivati: il che, secondo lui, avrebbe portato ad un eccessivo specialismo, e avrebbe fatto perdere all’umanesimo classicista quella vera passione civile e culturale che lo animava dai tempi di Poliziano e Valla.
Ad oltre cento anni dalle polemiche di Ettore Romagnoli, che infiammarono quegli anni, e i successivi, con accesi scontri verbali (e concorsuali), il dibattito sugli approcci più opportuni al mondo antico – per i nostri tempi, aggiungo io – è ancora molto acceso, con nuovi stimoli e nuove prospettive. Le parti in commedia, tuttavia, sembrano essersi invertite. Una nuova (e autoproclamatasi) Minerva, infatti, è incarnata oggi proprio da quell’approccio sintetizzato nel termine “filologia”, tanto originariamente e positivamente estensivo quanto, invece, attualmente piegato a un significato limitato, e limitante. Il termine “filologia” è divenuto un passpartout per apprezzare o criticare studi e ricerche, aprire o chiudere le porte di università e centri di ricerca, e persino accogliere o meno studiosi e colleghi in eventi o ensemble culturali.
E lo Scimmione? A incarnare gli obbiettivi delle polemiche condotte dai puristi, dai veri “filologi”, sono oggi due approcci impuri e contaminanti: quello antropologico e quello pragmatico. La Minerva filologa, italica e non solo, lancia ogni giorno i suoi strali contro chi legge, interpreta e diffonde i testi antichi con taglio antropologico o nel nome del realismo.
All’approccio antropologico si rimprovera, nel migliore dei casi, di instaurare comparazioni labili e opinabili; nel peggiore, fuorvianti e inopportune. Si rimprovera di interessarsi di aspetti ‘poco nobili’ del mondo antico e di intraprendere percorsi critici che non rientrano nei confini della scienza dell’antichità. In una parola, si rimprovera di non avere metodo.
Tali perplessità (per dirla con un eufemismo) sono mosse sia all’antropologia del mondo antico che impiega anche comparazioni interculturali, sia nei confronti dell’approccio che punta alla continuità della tradizione europea, in particolare nelle culture popolari di cui ancora oggi testimoni diretti conservano una memoria orale.  E come può essere possibile – tuonano i veri filologi – che un rito centroafricano faccia meglio comprendere una leggenda romana, o un brano di Luciano? E come potrebbero un pastore dei Nebrodi o un contadino lucano gettare una luce risolutiva persino sulla scelta di varianti testuali in un passo di Teocrito o in un brano di Orazio?
Si tratterà di casualità – concludono i detrattori, sempre pronti, vice versa, a cercare e apprezzare allusioni intertestuali non sempre necessarie – di esiti indipendenti o, peggio, di mistificazioni deliberate.
Il fatto è – io credo – che i veri filologi, che si percepiscono eredi di Bentley e di Wilamowitz, e si ritengono detentori di uno dei metodi scientifici più antichi e nobili fra tutte le discipline, mal digeriscono che un racconto nativo americano o un contadino lucano offrano una soluzione palmare a questioni esegetiche o finanche ecdotiche che non hanno trovato spiegazioni, nelle biblioteche, per decenni, a volte per secoli. L’orgoglio dell’accademico, abituato ad indagare e scandagliare secoli di letteratura secondaria e scaffali di biblioteche, non può proprio accettare di farsi dare lezioni da sciamani Tonga o pastori analfabeti.
E così le iniziative e la produzione saggistica di chi, attraverso l’approccio antropologico, cerca di far emergere dai testi greci e latini aspetti profondi e mai indagati, rivelatori di un’umanità a tutto tondo, ora attuale ora distante, ma sempre proficuamente ricca di interrogativi anche per la nostra umanità, vengono etichettati – dai veri filologi – come lavori lontani da una seria e rigorosa scientificità, troppo discutibili e troppo poco inattaccabili. Più o meno le medesime polemiche che, un secolo fa, erano condotte dalla filologia alemanna, come ce la descrive Romagnoli, contro una certa tradizione di studi italiana.
Non si tratta, certamente, di rincorrere comparazioni tanto sorprendenti quanto sdrucciolevoli come epigoni di James Frazer. Quando, però, la comparazione con sistemi di parentela giapponese o nativo americano getta una luce significativa per interpretare il ruolo dello zio materno nel meccanismo di relazioni familiari romane, chiarendo il senso di brani di storiografi e frammenti di teatro arcaico, lo scetticismo appare fuori luogo.
Quando, nel pieno della scena del matricidio nelle Coefore di Eschilo, Clitemnestra si scopre il seno davanti al figlio invocando le Erinni vendicatrici, si potrà senz’altro richiamare alla memoria la scena omerica di Ecuba che – toccandosi il seno – implora Ettore di non infliggerle un dolore andando a morte certa contro Achille. Ma chi confronti il brano con la tradizione della “maledizione del latte” tipica del Meridione italiano, in cui madri che hanno subito un torto da parte di un figlio lo maledicono a seno scoperto invocando la sua rovina, troverà probabilmente una chiave di lettura più appropriata.
E quando nell’Alcesti euripidea Admeto appena tornato dai funerali di Alcesti lamenta che ogni oggetto gli ricorda la dolorosa scomparsa della moglie, come i pavimenti sporchi della casa, è certamente esercizio di acume interpretativo ipotizzare che questa notazione possa simbolicamente rappresentare una materializzazione dello ‘sporco’ che Admeto sente dentro di sé per aver vigliaccamente accettato di esser sostituito dalla moglie; tuttavia, chi si avvale della comparazione culturale, può senz’altro, e più proficuamente, leggere nel brano il riferimento all’usanza di non pulire la casa dopo un funerale, segno individuale e sociale di lutto, come probabilmente percepivano gli spettatori del teatro di Dioniso ad Atene.
Il secondo bersaglio preferito dalla pura e filologica Minerva è costituito dalla lettura pragmatica dei testi antichi. Da chi, in sostanza, vede nelle parole degli antichi una testimonianza di realtà e concretezza, di vissuto, a volte trasfigurato dalla memoria e dall’arte, certo, ma pur sempre reale. Eh no! Per misurare le capacità di allievi e colleghi, la nuova Minerva ha da alcuni decenni iniziato ad impiegare un parametro ben diverso: la capacità di leggere nei testi antichi quel che non c’è e, parallelamente, smentire quel che c’è. Simboli, metafore, letture allegoriche da una parte, e decostruzioni di notizie fornite dagli antichi dall’altra, in nome di un approccio “scientifico” che alza o abbassa l’asticella del verisimile a piacimento, sono ormai le due correnti più in voga nei nostri studi. La fantasia metaforizzante si sbizzarrisce soprattutto nel terreno della poesia ellenistica e romana. Situazioni, luoghi, persone evocate nei carmi di Callimaco e Orazio, di Teocrito o Properzio divengono, nelle letture allegoriche di oggi, simboli di altro: etica, poetica, politica.
La cultura letteraria ellenistica non ha avuto (ancora?) un Bruno Gentili che ne abbia fatto emergere l’ancoraggio pragmatico, è vero. Ma persino i frammentari testi dei lirici greci arcaici non sono immuni dall’approccio simbolico, mentre le testimonianze sulle loro biografie, come del resto per tutti gli altri autori antichi, vengono sottoposte a un processo critico che ne mette in discussione la veridicità o le legge in chiave metaforica.
Eppure, viene da chiedersi (forse con ingenuità?): perché Saffo o Euripide, Teocrito o Orazio, avrebbero dovuto inserire nelle proprie opere riferimenti a fatti o persone fittizi, col solo scopo di alludere ad altro, e col rischio di essere smentiti dai contemporanei che quei fatti e persone ben conoscevano? Non è più semplice – e scientificamente corretto – pensare che i poeti, come sempre fanno e hanno fatto, trasfondano nei loro testi anche il proprio vissuto, certamente caricato anche di sovrasensi, ma pur sempre vissuto? Così, però, si perde l’occasione per squadernare qualche ipotesi esegetica raffinata, per realizzare qualche saggio ricco di acume interpretativo: e non sarà proprio questo che interessa alla nuova Minerva?
Invero, anche – forse soprattutto – l’attenzione al realismo dei testi antichi richiede profondo spirito critico e paziente ricerca scientifica: e spesso proprio un particolare concreto, pragmatico, nasconde un significato pieno e più verace del testo antico. Ma il filologo, per comprenderlo, deve calarsi nella realtà materiale, storica, archeologica, quotidiana del mondo antico, che gli è spesso meno nota di tanti riferimenti intertestuali di cui va fiero.
Nell’elenco di doni che uno dei due pastori teocritei dell’idillio 5 dichiara di offrire alla sua amata sono presenti “una tazza di legno di cipresso e un cratere, opera di Prassitele”; gli studiosi hanno ipotizzato che nell’accostamento vada vista una metafora poetologica in cui Teocrito contaminerebbe arte raffinata (il cratere di Prassitele) e mondo popolare (la tazza di cipresso). Tuttavia, se da una parte il nesso “opera di Prassitele” sembra da intendere piuttosto come un’espressione antonomastica, la conoscenza della realtà materiale del mondo rurale ci fa comprendere come nella “tazza di legno di cipresso” non sia assolutamente da scorgere un oggetto di poco valore: il legno di cipresso, infatti, difficile da lavorare, non è impiegato per strumenti di servizio, visto che rilascerebbe anche essenze e resine che rovinerebbero il liquido; tazze e altri oggetti in cipresso sono realizzati con unico intento artistico, sono ‘pezzi’ non funzionali, e dunque in questo risiede il loro valore di dono prezioso.
Il centro poetico (e il titolo) del poemetto che Erinna dedica all’amata amica Bauci, morta in prossimità delle nozze, è in una conocchia (elakáte), che è stata di volta in volta interpretata simbolicamente come oggetto dell’infanzia o del lavoro femminile. Ma chi guarda a molte tradizioni nuziali europee ancora vive fino a qualche decennio fa, scopre che proprio una conocchia è l’oggetto più diffusamente regalato alla nubenda: solo così, sembra evidente, il cerchio del carme della poetessa si chiude perfettamente. La conocchia letteraria è l’omaggio post mortem che la poetessa accosta, forse, all’oggetto già donato all’amica.
Gli esempi potrebbero continuare, ma i veri filologi seguaci della nuova Minerva contemporanea non perdono occasione di bersagliare gli scimmioni frequentatori dell’antropologia o sostenitori del realismo. Eppure, in un momento così critico per gli studi sul mondo antico, occorrerebbe che gli uni e gli altri unissero gli sforzi per diffondere maggiormente la passione (che parola rara nei nostri studi!) per la cultura classica a cominciare soprattutto dai livelli base, quelli del liceo. Il rischio, di qui a non molto, potrebbe essere che, di una polemica agguerrita tra Minerva e lo scimmione, facciano le spese le nuove generazioni, sempre più allontanate dalla straordinaria potenzialità critica di riflessione e umanità che offrono le civiltà greca e romana.

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